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Intervista a Carla Ricci, antropologa e ricercatrice all'Università di Tokyo



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Ho avuto la possibilità e il piacere di intervistare l'antropologa Carla Ricci (attualmente ricercatrice presso l'Università di Tokyo), pioniera e massima esperta mondiale sul fenomeno degli hikikomori. Nel 2008 pubblica un libro che tuttora rimane un punto di riferimento per chi si avvicina a questa tematica: "Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione". Negli anni successivi pubblica altri 3 libri sull'argomento, l'ultimo dei quali uscito solo dieci mesi fa e dal titolo: "La volontaria reclusione. Italia e Giappone: un legame inquietante".






Di seguito riporto le sue risposte integrali.


Grazie per aver deciso di partecipare a questa intervista. Come prima domanda vorrei chiederle perché ha deciso di dedicare i suoi studi all’hikikomori.


Credo che il maggior interesse che dieci anni fa mi portò ad occuparmi di Hikikomori sia legato al fatto che fosse peculiarità del Giappone (di cui avevo già affrontato il tema del suicidio e del doppio suicidio). Paese la cui raffinatissima visione del mondo, forgiata in un passato neppure tanto lontano, è per me sempre fonte di riflessioni. Inoltre, Hikikomori è (o forse è meglio dire "era") un fenomeno che riguarda i giovani che, da sempre, in qualsiasi Paese del mondo, non essendo ancora completamente assuefatti al sistema, sentono la vita più intuitivamente di quanto facciano gli adulti, e il cominciare ad auto-recludersi non è un messaggio di poco conto, per chi come me è interessato a coglierlo.


Qual è la percezione attuale dell’hikikomori in Giappone?


I tanti esperti che se ne occupano presentano considerazioni e formulazioni diversificate. Direi che come avveniva nel passato non è un problema di cui si tratti di frequente poiché, tutto sommato, crea imbarazzo, esso infatti infrange l’immagine che il Giappone vuole offrire soprattutto a se stesso: combattivo, che sa sopportare le difficoltà e che crede nello sforzo comune. Chi pratica Hikikomori si mostra essere il contrario, un perdente, uno che non lotta e che vive alle spalle della famiglia e conseguentemente della società. Questo non si dice, ma le persone lo pensano.

Inoltre, vale la pena sottolineare il cambiamento che è in corso in Giappone e che potrebbe influire su una nuova e diversa percezione del problema: esso consiste nel fatto che attualmente la maggior parte di Hikikomori sembra non siano più adolescenti, ma adulti. Sono informazioni emerse da dati attendibili e che presentano il fenomeno di questi “nuovi hikikomori” (così vengono chiamati), come esito della crisi economica che rende difficile mantenere il posto di lavoro, oltre che a trovarlo.

Nelle ragioni c’è molto altro su cui indagare fra cui la vergogna inaffrontabile per aver perso il lavoro semmai a 30 anni, nel pieno delle forze ed è meglio sparire chiudendosi in camera. Poi ci sono elementi più scontati, ma influenti, come il fatto che moltissimi degli adolescenti che hanno cominciato il ritiro molti anni fa lo praticano ancora oggi e nel frattempo sono diventati adulti, sensibilizzando in questo modo il cambiamento dei dati.


Qual è l’approccio del governo giapponese nei confronti dell’hikikomori. Sono state messe in atto misure per contrastarlo?


Misure per contrastarlo direi che sostanzialmente non possono esistere poiché il fenomeno è legato ad un sistema sociale che non può essere cambiato; quello che si fa è di sensibilizzare sul problema del bullismo, ritenuto una delle cause di hikikomori e anche del suicidio giovanile, piuttosto frequente in Giappone. Inoltre, poiché gli hikikomori non sono considerati malati (e in realtà non lo sono), essi non rientrano nel sistema sanitario, con tutti i limiti che questo comporta. Così, sono e rimangono chiusi in camera e la famiglia spesso "protegge” questa chiusura perché se ne vergogna e chiede aiuto solo se la situazione si rende insopportabile.

Certo ci sono molte organizzazioni No Profit che danno una mano e fanno del loro meglio, organizzano incontri con le famiglie, strategie per fare consulenze a domicilio (difficili poiché i reclusi le rifiutano), forme di terapie di gruppo per i casi meno gravi, aiuto nel reinserimento sociale quando il giovane si sente pronto a uscire. Poi ci sono terapeuti, psicologi, psichiatri ma fare consulenza a hikikomori non è il massimo a cui si possa aspirare per i molti problemi che implica la terapia a domicilio, sia perché i reclusi non vogliono nessuno in camera e sia perché quando accettano a volte hanno manifestazioni violente verso il terapeuta. 

Inoltre (e questo è ciò che ho rilevato senza tuttavia che nessuno l’abbia ammesso), è difficile per lo psicologo procedere fino in fondo perché per farlo occorrerebbe scavare nelle relazioni famigliari e nel rapporto madre-figlio, elementi influenti nel percorso di auto-reclusione, ma praticamente intoccabili e tanto assunti culturalmente che a volte lo stesso specialista non le rileva. Le forme di aiuto che ho citato si riferiscono comunque ad adolescenti e giovani uomini, ma non i “nuovi hikikomori” per i quali le cose sono comprensibilmente diverse.


Dal suo punto di vista il fenomeno degli hikikomori è destinato a crescere o a diminuire nei prossimi anni?


Hikikomori rappresenta uno dei tanti esiti imprevisti delle società contemporanee più “ricche”. La società è sempre più complessa, più competitiva, più arrogante ed anche più tecnologica, ma senza la preparazione psicologica dei suoi soggetti ad esserlo. I giovani sono eccessivamente protetti dalla famiglia, più narcisisti, meno inclini ai sacrifici e meno sensibili a diventare indipendenti, tutti elementi che possono favorire la resa finale, cioè l'hikikomori. A questo si può aggiungere una diversa chiave di lettura e cioè che quei giovani hanno colto senza saperlo l’oscurità che regna "fuori” e fuori non ci vogliono stare, anche se non ne sanno i motivi.

Certo, pretendono di essere sempre connessi in rete, ma dalla vera realtà vogliono starne lontani e non solo metaforicamente. Io non ho dubbi sul fatto che il fenomeno aumenterà e non mi sembra difficile intuirne i motivi. Oltre al fatto che la durata del ritiro tende ad allungarsi e quindi incide sul numero dei futuri reclusi, esistono una vasta serie di elementi che costituiscono i valori, le aspettative, le scelte delle società e i pertinenti risultati che sono gli stessi da cui si forgiano gli hikikomori; uno di questi che ha un ruolo importante è proprio l’evoluzione tecnologia e i tipi di ascendenti che può produrre sulla psiche.


Secondo lei l’hikikomori può essere inteso come una forma di depressione giovanile oppure ha delle peculiarità che lo rendono qualcosa di a se stante?


Quando il giovane comincia a pensare a ritirarsi fra le cause c’è certamente anche una prostrazione psichica, quindi una forma di depressione, ma non è, a mio parere, l’elemento determinante e solitamente non si protrae durante la reclusione con le peculiarità con cui si definisce la depressione e per questo si può definire a se stante. Chi entra in hikikomori sostanzialmente è solo stanco e vuole prendersi una sosta. E’ stanco a volte fisicamente, ma sostanzialmente è stanco di non sentirsi adatto e come gli altri, di non avere degli altri le stesse motivazioni e di non volerle neppure; non ci capisce più niente e desidera starsene solo e connesso.

Il problema è che con il passare del tempo lui non si sente riposato, ritemprato e pronto per uscire, ma l’idea del mondo fuori comincia a creargli panico e non c’è più un motivo che lo spinga ad uscire. Ognuno poi ha la sua evoluzione che secondo la mia esperienza, quando il ritiro non si protrae per troppi anni è, sotto diversi aspetti, positiva cioè costruttiva.



L’HIKIKOMORI IN GIAPPONE VS ITALIA


Cosa ne pensa del fatto che il numero di hikikomori in Italia sia in crescita? Secondo lei l’Italia è un paese culturalmente predisposto all’hikikomori?


Fondamentamene sembrerebbe non essere un Paese culturalmente predisposto a Hikikomori, essendo l’italiano, rispetto al giapponese, più estroverso, più goliardico, più comunicativo, che sente meno il senso di dovere sociale e di solito non prova vergogna se non fa quello che fanno i suoi compagni. Tuttavia in Italia il fenomeno Hikikomori esiste ed è in crescita sia per alcune condizioni che lo rendono simile al Giappone (fra cui, ad esempio, un'eccessiva protezione della famiglia, narcisismo, stretta relazione madre-figlio) sia perché ci sono sempre meno ragioni per essere comunicativi e goliardici e sia anche per altre condizioni di cui ho già accennato e che pongono l'hikikomori come un fenomeno destinato a essere o diventare una realtà di ogni Paese “economicamente emancipato”; condizioni che favoriscono uno stato psicologico di incertezza, insicurezza e disorientamento che, per chi è emotivamente più esposto, possono rappresentare una spinta decisiva verso il ritiro.


Da quello che ha avuto modo di osservare, che differenze ci sono tra gli hikikomori europei e quelli giapponesi?


La mia ricerca di confronto riguarda hikikomori italiani e non europei. Cercherò di sintetizzare le differenze senza tuttavia gli approfondimenti importanti ma che richiederebbero molto tempo. Diciamo che gli italiani mediamente sono più giovani dei giapponesi, tutti usano la Rete e di solito vengono descritti dipendenti da Internet (in Giappone si sostiene che il 30% non usi la Rete). Gli italiani spesso non rifiutano a priori un aiuto. Ci sono inoltre pochissimi casi di ragazze.

Gli italiani solitamente non provano senso di colpa o vergogna nel ritirarsi, inoltre durante il loro isolamento, non di rado tendono a fare un percorso di introspezione personale (non necessariamente con il terapeuta), cosa molto rara in Giappone. Occorre tener presente che il fenomeno in Italia è nuovo e che per avere un quadro più esatto sarà necessario attendere qualche anno. Ultima osservazione: molti degli hikikomori italiani conoscono e amano la cultura giapponese, sia nelle sue espressioni contemporanee che del passato.


HIKIKOMORI E DIPENDENZA DA INTERNET


In base ai suoi studi, che tipo di relazione esiste tra gli hikikomori e internet?


La relazione c’è per il fatto che la maggior parte (ma non tutti) dei giovani hikikomori usa in eccesso Internet, vale a dire che chi è chiuso nella stanza è più comune che passi ore in Rete piuttosto che leggere, scrivere o a non far niente.


Quanto si trova d'accordo con l'affermazione "l'hikikomori è un ragazzo dipendente da internet"?


Secondo il mio punto di vista, l’affermazione “dipendente da Internet” è qui un po’ sfuggente. Io ritengo che la dipendenza (da intendersi soprattutto riferita ai videogames) si verifichi più facilmente successivamente, vale a dire una volta che è cominciato il ritiro, e le motivazioni sono sia pratiche che psicologiche. Nei casi in cui ci sia un uso eccessivo di Internet prima del ritiro, esso può definirsi un elemento compartecipante alla autoreclusione, ma non è l’unico.


In Italia la stragrande maggioranza delle news che parlano dell’hikikomori lo associano alla dipendenza da internet. Lei cosa ne pensa?


Ecco che posso ricollegarmi a quanto appena scritto. Come spesso succede, è più facile imputare le cause di un fenomeno complesso a qualcosa che si mostra come una lampante e perfino ragionevole causa piuttosto che affondare il coltello nel problema, che significherebbe approfondire le cose con il rischio di non saperlo fare o di trovarsi davanti a qualcosa che non piace a nessuno.

Io ritengo che la dipendenza da Internet porti in sé il bisogno inconsapevole di qualcosa che non si sa cosa sia ma che manca, nella condizione di hikikomori, oltre a non assolvere tale aspettativa, essa maggiormente stordisce e allontana da un mondo in cui quel giovane non trova né la passione né le motivazioni che si era immaginato di trovare. Infatti, lui si è recluso perché fuori non c’è niente che interessa veramente e perché si sente inadeguato a quello che il ”fuori” richiede. E chiudersi con Internet diventa molto più facile poiché stare davanti al video è meno peggio di tutto il resto. Inoltre, aiuta a superare lo spettro della solitudine che la camera preannuncia. 

So di ripetermi ma è un punto importante: ritengo che l’associazione Internet e Hikikomori ci sia e sia forte, ma solo se collochiamo Internet come effetto conseguente alla reclusione; si potrebbe così dire che se non esistesse Internet la reclusione durerebbe meno o sarebbe meno rigorosa? Forse, anche se io non ne sono sicura. L’altro aspetto è quello di individuare la rete non come causa, ma concausa della decisione del ritiro e qui sono sicura che il ruolo della famiglia potrebbe creare un ascendete sulla piega che prendono le cose. A tale concausa si deve necessariamente aggiungere altro, fra cui forse un carattere introverso, narcisista, forse bullismo subito, rapporti famigliari apparentemente tranquilli ma fortemente ingarbugliati e molte altre cose che accadono dentro di lui ed attorno a lui e che portano a vedere nella volontaria reclusione l’unica scelta possibile da adottare.


PROGETTI ATTUALI E FUTURI


Che tipo di ricerca sta portando avanti attualmente riguardo gli hikikomori?

La ricerca che riguarda proprio “tutte le cose che accadono dentro di loro e che sono attorno a loro”.


Qual è l’aspetto più interessante che secondo lei rimane da comprendere sul fenomeno dell’hikikomori?


I veri motivi che trascinano nella volontaria reclusione, la maggior parte dei quali anche ciascun “normale” individuo si porta dentro e sui quali occorre creare maggior coscienza.


In Italia i suoi libri rappresentano un punto di riferimento per chi si avvicina allo studio dell’hikikomori. Ha in progetto di scrivere un altro libro sul tema?

Dopo l’uscita dieci mesi fa di “La volontaria reclusione. Italia e Giappone, un legame inquietante” (Aracne editore) il progetto di scrittura che ho in corso non riguarda hikikomori. Me ne occuperò più avanti ma sarà con diverse prospettive, cioè un differente criterio di osservazione.


Le mie domande sono terminate, la ringrazio nuovamente per la sua gentilezza. Ha qualche considerazione finale che vorrebbe fare?


Ringrazio Lei e i suoi lettori per l’interesse. Vorrei concludere sottolineando nuovamente che per la volontaria reclusione non ritengo esista alcun intervento sociale risolutivo; per ripristinare ciò che è andato perduto non si può sperare neppure in alcuna portentosa cura farmacologica ma occorre trovare il modo di dare a questa perdita una sensata ragione e possibile sostituzione. L’unico luogo che può porsi tale obiettivo è quello più vicino all'hikikomori, sia realmente che metaforicamente, cioè la sua famiglia. Mi riferisco a quelle famiglie che armate di buona volontà siano veramente interessate a mettersi davvero in discussione, senza domandarsi perché abbiamo un figlio chiuso in camera, proprio loro che per quel figlio hanno fatto tutto quello che potevano. Quei genitori che ancor prima di voler fare uscire il figlio, siano pronti a riformare i loro ruoli e guardare dentro a se stessi con coerenza e sincerità abbandonando le mistificazioni con cui hanno convissuto di cui spesso non ne sono neanche consapevoli. Questo sarebbe sufficiente per mettere in movimento un diverso “ambiente emotivo” che influenzerebbe tutti, compreso il figlio rinchiuso

Certo, sarebbe solo un primo passo ma che aprirebbe il percorso di cooperazione e appoggio al figlio su basi completamente nuove e se su quella strada ci sarà anche un terapeuta egli potrà procedere con gli stessi obiettivi coordinandone il progetto. Questa mia proposta, che ho dettagliatamente esposto nell’ultimo capitolo del libro prima citato, non è una retorica esternazione ma una valutazione esito di molti approfondimenti compresi esperienze con famiglie, hikikomori e terapeuti. Il fardello penoso che rappresenta per la famiglia la realtà del figlio recluso e la scelta non scelta di diventare hikikomori del giovane potrebbero creare una opportunità di fruttuosa, creativa e trasformativa esperienza individuale ma anche comune, capace forse di scoprire sensi e significati là dove ora non ci sono.


Carla Ricci


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