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Hikikomori e abbandono scolastico: qual è la situazione in Italia?



L'abbandono scolastico è sicuramente uno dei primi campanelli d'allarme per quanto riguarda l'hikikomori. Ho già affrontato questo tema in un post precedente, cercando di capire cosa non funziona nel nostro sistema educativo e cosa spinge milioni di ragazzi ad abbandonare anzi tempo gli studi.

In questo post proverò ad approfondire ulteriormente.


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Un recente articolo uscito su "La Repubblica" ha riportato i fari dell'informazione sulla questione. Il quotidiano ha parlato di 27 casi di abbandono scolastico a Bologna, definendo quella dei cosiddetti alunni-fantasma una "tendenza preoccupante".

L'articolo, tuttavia, ha un taglio molto regionale, mentre è facile ipotizzare che l'abbandono scolastico sia un fenomeno in crescita in tutta Italia.

Con l'obiettivo di rinforzare questa tesi, ho deciso di intervistare la Dott.ssa Ileana Colleoni, responsabile dello sportello psicologico all'Istituto Comprensivo E. Breda di Sesto San Giovanni (MI).

Le risposte che ho ricevuto sono state molto interessanti. Le riporto di seguito.


Ha mai sentito parlare di "hikikomori" prima d'ora?


Sì, ne ho sentito parlare da colleghi e ho letto in internet.

Quanti casi di abbandono scolastico ci sono all'anno nel suo istituto? È un fenomeno in aumento?


Lavoro in Istituti comprensivi molto ampi con circa 500 ragazzi nella scuola secondaria di primo grado. Ogni anno ci sono circa 10 ragazzi che si assentano ripetutamente da scuola. Non si può parlare di vero abbandono scolastico perché siamo ancora in situazioni di scuola dell’obbligo e si riescono ancora a seguire da vicino queste situazioni, ma di questi 10 almeno 2-3 sono molto vicino ai 16 anni e spesso diventa difficile motivarli.


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Cosa fate quando un ragazzo smette completamente di venire a scuola o comincia a accumulare un numero elevato di assenze? 


Di solito si attivano gli insegnanti che avvisano la dirigente e chiamano la famiglia. Io come psicologa dello sportello d’ascolto vengo coinvolta per iniziare i primi colloqui con la famiglia e verificare la situazione, poi, se è possibile vedo il ragazzo o la ragazza. Incontro anche gli insegnanti per costruire insieme, a seconda delle necessità un percorso specifico (con gli insegnanti che si rendono disponibili).

L’anno scorso un ragazzino si è “rifugiato” in casa senza più voler entrare a scuola, con crisi di ansia e un rifiuto totale di contatto. Sono riuscita a vedere la madre e ad accompagnarla lungo la decisione di contattare un servizio del territorio che potesse prendersi in carico il ragazzo. Nel frattempo con la scuola (e una dirigente molto disponibile e attenta) si è costruito un percorso su misura in cui, piano piano il ragazzo ha potuto svolgere a casa parte delle lezioni e svolgere a scuola solo alcuni colloqui di verifica con i professori. Quest’anno dopo un percorso psicoterapeutico che ancora prosegue, è rientrato a scuola e sta svolgendo quasi tutte le lezioni.

È capitato che dei genitori venissero a chiedervi aiuto (a causa dell'isolamento del figlio)?


Raramente mi è accaduto che siano i genitori che si attivino, più spesso accade che i ragazzi vengono a parlare allo sportello di quello che vivono, a volte spontaneamente e a volte perché consigliato dai professori. Oppure accade che i compagni di classe preoccupati ne parlano con gli insegnanti che poi si attivano.

Qual è la sua opinione in generale sul fenomeno degli hikikomori?


Credo sia un fenomeno complesso ancora tanto da conoscere e capire, almeno in Italia. Quello che vedo nella mia esperienza con i ragazzi è il bisogno di viversi una realtà parallela che sia però “schermata”, un relazionarsi a basso costo, senza un reale troppo diretto, come se il non metterci la faccia sia sufficiente per tutelarsi da una possibile inadeguatezza. E’ una sofferenza, una fragilità che ha trovato nei social network e in internet un luogo per essere senza essere davvero. 

Lei ritiene che le scuole italiane siano pronte ad affrontare questo fenomeno? 


Non sono pronte le scuole né lo sono le famiglie. Credo sia molto importante aprire il dialogo con i giovani sul senso che loro conferiscono a queste attività, cosa provano nelle relazioni “virtuali”. Credo serva capire e scoprire insieme a loro cosa sono queste esperienze e da queste comprensioni nasceranno poi i servizi utili.


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